lunedì 23 giugno 2008

Il silenzio dell'anima

Parchetto sotto casa. Luogo mitico dell’osservazione pedagogica con sfumature antropologiche. Bimba di quasi sei anni, scoprirò poco dopo, intenta a giocare con l’altalena. Si noti il senso della proposizione. Non stava “andando” sull’altalena: ci giocava. Lancia, tira, scansa, afferra, insomma, ci stava giocando. Mamma seduta sull’altro capo della panchina sulla quale pigreggiavo anch’io, osservando da media distanza la mia di figlia, appollaiata su un altro attrezzo. Mamma del genere richiamante: non fare questo, non fare quello, guarda che ti fai male, se non la pianti andiamo a casa. Tono stanco, tendente all’isterico. Tipo che avrà ripetuto milioni di volte le stesse cose e sottotraccia infatti sembra dire che è stufa di ripetere milioni di volte le stesse cose. Intanto Denise, le mamme richiamanti hanno il pregio di non farti dimenticare i nomi dei loro figli, continuava a fare dell’altalena ciò che preferiva, interrompendo qua e là le evoluzioni per correre dalla madre in cerca di acqua. Si sa, dopo mesi di freddo il caldo improvviso mette sete, se si ha sete si beve e se si beve e si corre si suda meglio. Ottima occasione per la richiamante di aprire un altro fronte di rimprovero. Dal guarda che se giochi ti fai male, al guarda che se corri sudi. Minimalista e ai limiti della genialità. E non era un’informazione, nel caso che la piccola non fosse in grado di cogliere il nesso causale, era proprio un rimprovero che sottolineava un comportamento inadeguato. Cosa c’è di più inadeguato per un bambino di sei anni del giocare e del correre in un parco giochi?
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Ma quella piccola peste non aveva ancora finito di straziare i nervi della povera genitrice. Che nel frattempo conversava al cellulare con non so chi lamentandosi di non so cosa, senz’altro lamentandosi. Denise finisce di ingollare l’ultimo sorso d’acqua e cerca di chiudere la bottiglietta di plastica senza riuscirci. La madre, interpretando la goffaggine della figlia come una richiesta di intervento, allunga una mano per chiudere il tappo prima che si verifichi un disastro dalle proporzioni incalcolabili. Nel farlo però, si scoordina peggio della quasi seienne e mentre afferra la bottiglia, con un guizzo degno del Woody Allen di Provaci ancora Sam, lancia il cellulare che finisce rantolando qualche passo più in là. Ecco hai visto? Con te devo sempre fare mille cose contemporaneamente, e guarda cosa è successo!! Ovviamente la colpa era di Denise.

Monica, in un commento al post precedente, e a proposito di una spiaggia affollata di genitori e bimbi di pochi mesi sotto il sole delle ore 14.00, scrive: “Sarebbe comodo giudicare, ma non è questo il punto. Sarebbe più utile domandarci cosa possiamo fare per evitare di andare tranquillamente e collettivamente alla deriva”. Ecco, sarebbe facile giudicare la mamma di Denise, e mi aspetto che come è già successo un po’ di persone facciano l’elenco dei motivi per cui quella mamma probabilmente era sull’orlo della crisi di nervi. Io, seduto sull’altro lato della panchina, mentre osservavo a media distanza mia figlia appollaiata un po’ più in là, ho fatto di tutto per non giudicare, per masticare le cattiverie che mi salivano a fior di labbra. Ho capito in quel momento esatto che occorre praticare il silenzio dell’anima, perché quello della bocca non basta se poi ciò che non dico si affolla nel fegato, rodendolo. E il silenzio dell’anima è un vuoto pacificatore meraviglioso, che mi ha riempito di una tristezza profonda.

Non ti giudico mamma di Denise. Avrai mille milioni di motivi per non renderti conto della fortuna che hai ad avere una bambina di, quasi, sei anni vitale e giocosa come lei. La tua vita sarà faticosa, difficile, come non posso neppure sospettare, seduto da questo lato della panchina. Ma è proprio questa la risposta che devo a Monica. Come fare ad evitare di andare collettivamente alla deriva? Smetterla di giustificare qualsiasi comportamento con la scusa di non avere elementi sufficienti per poterlo giudicare. Non ti giudico mamma di Denise. Non ti giudico come mamma. Però, anche sei avrai avuto tutti i motivi del mondo per essere sull’orlo di una crisi di nervi, quel tuo comportamento quella mattina al parco era sbagliato. Punto. E la mia infinita tristezza non è neppure per la tua bambina, che alla fine se la caverà comunque, ma per te madre, per la tua solitudine, abbandonata alla deriva nei flutti di un parco giochi cittadino senza uno straccio di nonna, zia, fratello, compagno, amico/a in grado di dirti piantala, smettila di stressare Denise, non starle col fiato sul collo, lascia che provi e che sbatta il naso dove deve sbatterlo. Circondata solo da estranei come il sottoscritto, che non possono dirti nulla, nè aiutarti, nemmeno ascoltarti. Semplici testimoni muti di un mondo, il tuo, vicino e inaccessibile.
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E ancora la mia infinita tristezza è per i nostri destini. È facile indignarsi per una violenza fisica ai danni di una bambina di sei anni, per un abuso, per un abbandono, per uno sfruttamento sessuale. Troppo facile. Ma a che serve indignarsi per tutto questo, se poi ci nutriamo di impotenza per i piccoli gesti educativi quotidiani gettati lì, irritati e distratti, faticosi e inutilmente affaticanti?
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martedì 3 giugno 2008

Tragedie educative

Due tragedie. La prima esistenziale, la seconda educativa. Qualche giorno fa una madre si dimentica del figlio di due anni e lo lascia in macchina a morire. Non stiamo parlando di un caso sociale. Stiamo parlando di una professoressa di un liceo di provincia. Fosse un caso sociale potrei scrollare le spalle dicendomi che, certo, nel quadro di una problematicità conclamata e certificata ci sta di scordarsi del bimbo, abbandonandolo. Ma una professoressa… e di colpo ti rendi conto con un brivido che potrebbe capitare anche a te. Che niente e nessuno ti può mettere al riparo da un gesto disattento che frantuma irreversibilmente l’esistenza. Sin qui le tragedie della vita, quelle che incombono sul collo di ognuno. Nessuno escluso.

Ma quei ragazzi. Quegli studenti di quel medesimo liceo dove la professoressa dimentica del figlio si è recata per le sue cinque ore di lezione, quei sedici-diciassettenni immortalati dalle telecamere di sorveglianza che si accorgono del bambino chiuso in un’auto parcheggiata nel cortile della scuola, e non dicono niente a nessuno. Salutano dal finestrino, poi se ne vanno. Chissà cosa hanno pensato. Probabilmente nulla. Non era un problema loro. Forse qualcuno tra sé si sarà pure fatto una domanda. Ma la risposta non lo riguardava. Dunque se ne è andato insieme agli altri e, finito l’intervallo, è rientrato nella scuola della professoressa e non ha nemmeno provato ad avvertire un adulto. Non ne ha probabilmente neppure intuito la necessità.

Sono ragionevolmente convinto che se la professoressa, invece di essere una professoressa, fosse stata un’insegnante di scuola elementare, quel bambino di due anni sarebbe ancora vivo. Perché durante l’intervallo a trovare il piccolo chiuso in auto sarebbero stati dei ragazzini di otto/dieci anni. E loro non avrebbero esitato un secondo nel raccontare alla maestra cosa avevano visto. E quel piccolo sarebbe stato salvato. Purtroppo al centro della vicenda c’è una scuola superiore con il suo ripieno di ragazzi adolescenti. I nostri adolescenti, quelli che hanno ormai imparato che nulla di ciò che li circonda, se non ha a che vedere direttamente con i loro interessi, li riguarda. Quelli che la responsabilità abbiamo perso da tempo le istruzioni per programmarli. Quelli pronti magari a filmare l’accaduto e metterlo in diretta su Youtube, ma nemmeno sfiorati dalla domanda se per caso ci sia qualche problema che richieda l’intervento di qualcuno.

La tragedia di quella madre è infinita. E ci rimanda a tutte le tragedie che aspettano ognuno di noi, pronte a balzarci addosso domattina. Ma la tragedia di quei ragazzi inconsapevoli e irresponsabili, è una tragedia collettiva che ci è già capitata. Da tempo.